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  • VENEZIA FILM 2009: LO SPAZIO BIANCO di FRANCESCA COMENCINI

    lo-spazio-bianco08/09/09 - “Lo spazio bianco” di Francesca Comencini, passato in concorso al Lido, è un “buon film italiano”. Il che non significa, in termini assoluti, che ci sia da spellarsi le mani. Delle due sorelle Comencini, Francesca è sempre stata la più appartata, pure la più coraggiosa nelle sue scelte estetiche e narrative. A differenza di Cristina, che da qualche anno privilegia il racconto-romanzo classico e talvolta edulcorato (a scapito della forma, in alcuni casi tendente al gusto televisivo), Francesca è sempre stata più “sfrangiata”, meno perfettina, più audace, e protesa a nuove forme di realismo psico-sociale. Nel suo cinema assumono sempre grande rilievo i colori scelti, la fotografia (estremamente espressiva anche in questa sua nuova opera), le canzoni in colonna sonora, talvolta la qualità dell’immagine, con macchina a mano o senza: scelte stilistiche tali da condurre il suo cinema in un territorio piuttosto personale, che si nutre di un costante impegno civile ma tramite vie non banali né retoriche, né declamatorie, e delineando figure umane di notevole spessore. Questo suo nuovo film rispecchia tali tendenze estetiche, non le tradisce né le supera. Ma è pur rilevabile, così come in “A casa nostra”, una necessità troppo pressante di esporre una tesi (tenuta molto sottotraccia) a cui alla resa dei conti si piegano gran parte degli elementi narrativi.
    Raccontando l’attesa di una donna davanti all’incubatrice, una madre single e solitaria, non più giovanissima, che ha partorito una bambina di 6 mesi e deve trepidare per la sopravvivenza della figlia, la Comencini in realtà intesse pezzo per pezzo un potente discorso sulla maternità laica. Finché si tratta di narrare il personaggio di Maria nel suo travaglio personale e nella sua fiera difesa della propria idea di maternità, il film procede benissimo, ben sostenuto da un’ottima prova di Margherita Buy, al centro di un notevole tour-de-force individuale in quanto unica vera protagonista. Poi però l’autrice non riesce a trattenersi dal desiderio di sottolineare, enfatizzare e ribadire, e cerca di farlo con una certa furbizia, facendosi forte cioè di un’apparente costruzione per “calcolatissima casualità”, mentre in realtà a poco a poco si dispone intorno a Maria un presepino retorico e, in ultima analisi, didascalico. Il sospetto del didascalismo, a dire il vero, era già sorto da subito, nel momento in cui Maria apprende che la neonata è stata messa in incubatrice, e improvvisamente, a sottolineare la sua tormentosa attesa, infila un incontro casuale con uno sciame di bambini in uscita da scuola. Poi, passo per passo, il quadro si completa: Maria è insegnante di un accattivante gruppo di anziani ed extracomunitari che vogliono prendersi la licenza media, e sono tutti buonissimi e generosissimi; il miglior amico di Maria è single, probabilmente gay (anche se, per una volta, la sua sessualità non viene dichiarata, e almeno tale cliché da neo-canone italiano è saggiamente evitato); la vicina di casa di Maria è un magistrato che vive con la scorta e rischia ogni giorno la vita, e Maria la difende dagli altri vicini che si sentono in pericolo per la sua presenza nel palazzo; il giovane dottorino dell’ospedale, esperto di musicoterapia, è un’anima bella… Il fine ultimo, probabilmente, è l’ostentazione di una “diversa” fetta d’Italia, lontana dall’omologazione e dall’egoismo, dotata di grande senso civile, ancora capace di sdegnarsi e di riaffermare la propria esistenza, e soprattutto dominata da un profondo senso di sostegno, solidarietà e comprensione reciproca. Ma, ammesso e non concesso che esista davvero una simile “sociosfera” italiana (più che una lettura realista, quella della Comencini appare colma di ottimistica speranza), non è con lo strumento del didascalismo che si rende un buon servizio al cinema italiano, né si dà qualche contributo alla riflessione sociale. Pure in “A casa nostra” si notava la stessa tendenza, ma era meno stonata, in quanto l’intento di radiografia corale di un malessere sociale era evidente e sostenuto da una dichiarata indignazione civile.

    Sarebbe da suggerire a Francesca Comencini, in ultima analisi, di guardarsi intorno, di allargare il suo orizzonte, e di non limitarsi a narrare le realtà italiane di sua conoscenza. Esiste, purtroppo, anche un’altra Italia, volgare, cafona, ignorante e abbandonata a se stessa, tuttora dominante, e lontana anni luce dall’emancipazione e dalla solidarietà messa in risalto in “Lo spazio bianco”.


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