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  • Recensione semiseria della Traviata alla Fenice di Venezia


    Un’orrida Venezia stranamente meno caotica del solito, ma con qualche sorpresa, mi ha accolto con l’ormai consueto volo radente di piccioni diarroici, ieri pomeriggio.
    Strano ad esempio che i turisti, in una bella domenica settembrina, non abbiano assaltato la città lagunare. Chi non vorrebbe pranzare, per poche centinaia di euro, in un bel ristorante dove servono spaghetti stracotti con vongole veraci provenienti dagli inquinatissimi allevamenti filippini? Chi non apprezzerebbe la meravigliosa vista di bottiglie di plastica che galleggiano sull’acqua, di timidi preservativi che fanno occhiolino tra i ben più aggressivi cilindri fecaloidi di provenienza umana e no? Chi non rimarrebbe attratto dalla possibilità di fare da bersaglio, gratis, a gabbiani di dimensioni da guiness che s’esercitano con pazienza certosina nel lancio delle loro importanti deiezioni?
    E poi, volete mettere? A Venezia c’è sempre questo gusto sorprendente per il Carnevale! Ieri la città era piena di leghisti in camicia o maglia verde padano, sulle quali i succitati piccioni e gabbiani, con una creatività insospettabile, lasciavano deliziose screziature dai meravigliosi colori autunnali, come si conviene alla stagione (strasmile).
    Ma veniamo alle cose semiserie e cioè alla recensione dello spettacolo, cominciando dalla regia di Robert Carsen, che immerge Violetta, sia fisicamente sia emotivamente, in un fiume di danaro, che compare in scena con ben evidenti bigliettoni con cui i clienti della cortigiana pagano le ore d’amore, il tutto già all’apertura del sipario mentre la Valery è nel suo ufficio, cioè a letto.
    E poi, nel secondo atto, le banconote fanno da tappeto al posto delle foglie autunnali nel giardino,
    con i soldi di quell’idiota di papà Germont che crede di poter pagare la violenza della coartata rinuncia all’amore di Alfredo (un vero e proprio stupro psicologico). Non manca, ovviamente, il lancio del denaro nella “scena della borsa”. Tutto ruota intorno ai soldi e si pretende che i sentimenti si assoggettino all’andazzo di un mondo superficiale, inutile: un mondo usa e getta, che vive l’attimo. In questo contesto, Alfredo è un fotografo forse più innamorato dell’immagine di Violetta che di Violetta stessa (anche come trasgressione, col padre borghese che si ritrova che sogna per lui e la sorella “pure siccome un angelo” una sistemazione rassicurante e socialmente accettabile).
    Il microcosmo che ruota intorno alla protagonista è all’insegna di questo hic et nunc: le feste, gli amici che scompaiono quando Violetta sta male e quindi non è più fonte di divertimento né d’intrattenimento, il medico che quasi vuole essere pagato prima di visitare Violetta.
    Uno spettacolo di rara suggestione, sensuale e mai volgare, che conta su costumi bellissimi e sfarzosi (Patrick Kinmont) e un impianto luci efficacissimo (a cura dello stesso Carsen e Peter Van Praet). In alcuni momenti è sembrata un po’ caciarona la coreografia (Philippe Giraudeau), ma nell’ambito della festa a casa di Flora e in questo contesto, ci può stare.
    Il direttore Myung-Whun Chung non mi ha convinto, perché seppur senza particolari demeriti, non mi è parso avere un senso della narrazione compiuto e ha tenuto, in alcune occasioni, il volume dell’orchestra (ottima prova della compagine veneziana) troppo alto. Clangorose e pesanti alcune strette orchestrali, eccessivamente slentati in un malinteso senso di suggestione lirica, alcuni momenti topici (Addio del passato, in particolare).
    Patrizia Ciofi interpreta e canta meravigliosamente bene, specialmente nel secondo e terzo atto. Nel primo la cabaletta “Sempre libera” l’ha vista in leggero affanno. Nulla di grave, ma io considerando che è un soprano leggero avrei pensato fosse più incisiva proprio nella prima parte. Il soprano “possiede” il personaggio in ogni sfumatura, ma non ne è posseduta: quindi nessuna concessione a sbracamenti del tutto fuori stile. I momenti migliori sono sembrati il duetto con Germont padre, ricco d’orgoglio e forza, e il finale, dalla famosa lettura della lettera in poi, davvero commovente.
    Ieri anche i centri, che in qualche occasione recente erano sembrati un po’ vuoti, erano perfettamente a posto. Trionfissimo, si può dire? No? Vabbè, è uguale, perché di questo si è trattato.
    E lacrime da parte di Amfortas, accidenti!
    Vittorio Grigolo mi ha sorpreso positivamente.
    Non sono certo io che devo scoprire le sue non comuni qualità timbriche, ne ha dato prova da tempo. Spesso però le sue interpretazioni mi erano sembrate piuttosto generiche, come se fosse pigro nell’affrontare la psicologia del personaggio. Ieri invece ha trovato la giusta misura, con encomiabili mezzevoci a tratteggiare un Alfredo giovane ed entusiasta ma non irresponsabilmente isterico. Grande successo anche per il giovane tenore, che tra l’altro può contare su un discreto volume.
    Vladimir Stoyanov era nei panni del rompiballe Germont Sr. e non mi è piaciuto, anche se non posso certo rimproverargli nulla di particolare: volume discreto, ma, seppur alle prese con un personaggio monolitico, avrei gradito qualche nuance interpretativa in più.
    Tutti gli altri coprotagonisti hanno ben figurato nelle loro piccole parti e meritano la citazione., così come va segnalata la buona prestazione del Coro.
    Annika Kaschenz (Flora), Elisabetta Martorana (Annina), Iorio Zennaro (Gastone), Elia Fabbian (Douphol), Luca Dall’Amico (Grenvil), Matteo Ferrara (Marchese), Ciro Passilongo (Giuseppe), Claudio Zancopè (domestico) e Antonio Casagrande (commissionario).
    Teatro esaurito in ogni ordine di posti e pubblico felice, che ha sommerso d’applausi tutti gli artisti con punte di sincero entusiasmo per Patrizia Ciofi e Vittorio Grigolo.
    Io ho lottato strenuamente con le maschere per scattare le foto ma purtroppo, così, tanto per non smentirmi, la batteria era quasi scarica e quindi sono venute male, le metto solo per dare un’idea dello spettacolo.
    Il ritorno dalla Fenice alla stazione ferroviaria è stato funestato dallo spettacolo dato da una giovane madre, che pretendeva (redarguita pesantemente dal più assennato marito, una scena tristissima) di non ripiegare una carrozzina di dimensioni spettacolari (non ho mai visto una roba del genere, su Google non c’è traccia ma v’assicuro che ho calcolato un ingombro di 4 mq, e non sto scherzando) sul vaporetto pieno come un canotto di migranti.

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